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Dziga Vertov
URSS 1929
Lo spettatore è avvertito, quello a cui sta per assistere è ‘un esperimento nella comunicazione cinematografica di eventi visibili’. All’inizio de “L’uomo con la macchina da presa” (1929) Dziga Vertov mette subito in guardia il pubblico, facendo suonare quella che è una presentazione quasi come un segnale di pericolo. Il suo film è il ‘diario di un cameraman’, che gira per Odessa riprendendo con la sua cinepresa ciò che gli pare interessante, che non per forza coincide con ciò che è bello. Lo scopo di Vertov è lasciare a bocca aperta lo spettatore, sfruttando al massimo il potentissimo strumento che ha a disposizione: la macchina da presa. E, secondo la sua teoria del kinoglaz (cine-occhio), il più delle volte per stupire basta mostrare la realtà sotto altri punti di vista: grandezze alterate (il protagonista sopra la cinepresa), tempi accelerati, ralenti, ecc., ma c’è posto anche per qualche effetto speciale vero e proprio, come la macchina che si inchina davanti alla platea e se ne va. Il cinema e la realtà: nient’altro serve per realizzare un film. Quindi – come dichiara lo stesso regista all’inizio – nessun set, nessuna didascalia, nessun attore appaiono in questa pellicola; allo stesso modo, sono tagliati tutti i legami con il teatro e la letteratura. Il cinema si nutre e vive della realtà attuale, che trasmette allo spettatore con un grado di oggettività impossibile per il suo occhio e quindi per lui stupefacente e meraviglioso. Interessante poi la stratificazione dei livelli di visione: il più esterno siamo noi, che abbiamo davanti un cinema nel quale il pubblico guarda un film, quello di Vertov, in cui è seguito un cineoperatore nel suo scorazzare per la città con una cinepresa. Cinque livelli quindi: noi – platea – regista – uomo con la macchina da presa, che a sua volta riprende qualcosa per qualcuno.Clicca qui per leggere la recensione del Cinema Bendato.